Critica

LA CASA DELLE OMBRE VOLANTI

Lorenzo Canova

 

Una luce dorata e accecante, una tessitura densa che esalta il chiarore del fondo, sagome nere che si stagliano come presenze enigmatiche in un dialogo tra pittura e letteratura basato sul tema eterno dell’ombra: con una pittura che esalta la sua vibrazione materica, Innocenzo Odescalchi ha composto un nuovo ciclo di opere dove l’ispirazione legata a Don Chisciotte della Mancia fa rinascere un antico archetipo della classicità e delle civiltà mediterranee.

In questo contesto l’artista incardina le sue memorie iconiche, sagome abbrunate e misteriose, chiamate, altrettanto misteriosamente, Ombre volanti.

Sappiamo che Odescalchi collega questo titolo a Don Chisciotte che proietta le ombre della sua follia al mondo circostante, compiendo umbratili e inesistenti gesta cavalleresche degne di un vero e proprio cavaliere eroico e inesistente.

Tuttavia l’idea delle ombre che volano ci può anche portare più indietro nei secoli e ci possiamo chiedere se queste ombre sollevate dal suolo non possano alludere agli antichi spettri del meriggio, «fantasmi assai più interessanti e complicati di quelli che di solito ci appaiono, al suono di mezzanotte» ha scritto il maestro delle ombre Giorgio de Chirico.

I demoni meridiani apparivano ai pastori di Grecia quando il sole di mezzogiorno, perfettamente a picco, non permetteva che i corpi proiettassero ombre sul suolo, in un momento in cui però lo sguardo accecato dalla luce vedeva tutte le figure come ombre che volavano ormai staccate da terra: gli spettri dell’ombra terrorizzavano così i contadini come Pan tra gli alberi, oppure apparivano come avi scomparsi che profetizzavano il futuro.

Odescalchi sembra dialogare con queste presenze oscure che si delineano nei suoi quadri per accompagnare il suo viaggio pittorico, sembra udirne i vaticini per trasformarli in segni ermetici impressi sulla tela, incastonando la loro fuggevole essenza nel colore come insetti imprigionati nell’ambra.

Questi strani profili neri e vagamente antropomorfi ci fanno riflettere sulla natura ambigua dell’ombra slegata dal suo corpo, sulla libertà concessa a queste silhouette immateriali che si permettono di diventare tridimensionali, di trasformarsi in anatomie vuote e inquietanti, in figure umanoidi che sembrano contenitori svuotati e abitati, per l’appunto, soltanto dall’ombra.

In questo modo Odescalchi non combatte le sue ombre come Don Chisciotte ma, con raffinata astuzia, asseconda la loro natura inaffidabile per trasformarle in materia cromatica e in sculture-trofeo da appendere al muro.

«Dov’è la mia casa?» chiedeva la sua ombra allo Zarathustra di Nietzsche, nel suo eterno essere dappertutto e nel suo eterno non essere in nessun luogo, ma sappiamo che, per fortuna, le ombre di Odescalchi hanno invece trovato il loro approdo, la dimora dove possono splendere in negativo dei loro bagliori tenebrosi, accolte per sempre nell’abbraccio materno dei suoi intrecci cromatici.

Così quelle sagome scure sembrano cambiare le coordinate della loro spettralità, perpetuando il potere di una pittura che costruisce il suo mondo parallelo e (ir)reale: accolte da quei dipinti, sono così destinate ad abitate le stanze enigmatiche evocate da Odescalchi, spazi in bilico tra luce e tenebre dove le sue ombre immobili possono continuare il loro volo perpetuo e inarrestabile.